Made in Ita Lì

Prendo spunto da un commento che ho fatto ad un post di Massimo MANTELLINI e lo trasformo in un post; il problema è se l’espressione Made in Italy abbia un significato.

Se restiamo nella retorica possiamo continuare, per dirla con Galilei, il disputar lungamente delle massime questioni, senza conseguir verità nissuna.

Se vogliamo parlare di Made in Italy, dobbiamo intanto definirlo.

Lo vogliamo definire letteralmente? Sarebbe “fatto in Italia”.

Da questo punto di vista, che non ho detto essere l’unico ma uno di, la Fiat Panda NON è Made in Italy.
La fanno a Tichy, in Polonia e la fanno lì perché gli operai in termini assoluti vengono pagati molto meno; rapportati alla loro realtà non sono parimenti sottopagati, ma non voglio aprire una polemica su questo; è giusto per spiegare il perché non la facciano in Italia. E’ Made in Ita Lì, ovvero delocalizzata. Ma guarda alle volte, un prodotto de-localizzato, ovvero cui viene tolta la connotazione di luogo.

Ma se andassimo in giro a chiedere ad un IQM – Italico Quadratico Medio se la Panda “è italiana?” cosa risponderebbe?
Posso sbagliare, ma immagino che dica “sì” nella grande maggioranza dei casi.

Parrebbe quindi che il concetto di Made in Italy non sia da intendersi letteralmente. Parrebbe piuttosto un sinonimo di “Designed in Italy”, esattamente come un iPhone non viene percepito come cinese (ed è tutto tutto fatto in Cina da Foxconn) perché lo progettano in California.

Daniele MINOTTI, negli stessi commenti, dice che non stiamo parlando di maglioni o di Panda, ma di cibo.

Ecco, qui i concetti di percepito e reale non dovrebbero differire.
Se ti dico che questo prodotto alimentare è italiano, dovrebbe essere letteralmente italiano. Il perché è perfino ovvio, forse; perché in pura linea teorica, dovrebbe essere possibile controllare “dal vivo” quei prodotti e quindi garantirne la rispondenza a requisiti di salubrità ed igiene che paiono dovuti ed acquisiti. Altrove, e non voglio sapere dov’è altrove, potrebbero essere ammissibili condizioni e pratiche che qui non lo sono.

Ma
Ma, Gomorra a parte, siamo in Europa, e su questi temi la normativa europea è prevalente su quella nazionale. Ecco allora il cacao senza cacao, ad esempio. Oppure ecco che il Tocai (oggi Tai), diventa il Tokadj Sloveno o il Tokaj ungherese (come il salame che abbiamo mangiato fin da piccoli) con buona pace della zona del Collio.

I due esempi non sono casuali.
Il primo ci dice che oggi il Made in Italy non esiste né di nome e né di fatto. Non esiste di nome perché il percepito ed il reale non coincidono; non esiste di fatto perché non c’è più un qualcosa che lo identifichi. Direte, e il DOC, DOP, DOCG?!
Io sono astemio, quindi fate un corso da sommelier di una certa serietà e scoprirete che la definizione di queste cose, per dirla alla romana, è come la pelle dei cojoni. E la sera, in pizzeria solo pizza DOC con tanto di disciplinare? E gli ingredienti tutti DOP?
Se non siete nei NAS, non vedo come fate a saperlo, ma se fosse beati voi.

Il secondo esempio ci dice che qualcosa che abbiamo considerato Made in Italy per anni può diventare slovacco con una firma. La stessa firma vieta, e le pene sono severe, di usare quel logo, quel logotipo e quel coordinato d’immagine (se preferite quel brand) su prodotti italiani da una certa data in poi.
Quindi?
Quindi se per anni ti sei sentito appagato dal Tocai, oggi che si chiama Tai t’è cambiato qualcosa o no?
Coro di “no”?!
Ci hanno discusso ventitrè mesi, vorrà dire qualcosa. Se non volesse dire nulla, avrebbero potuto dire “esticazzi” e passare oltre.

Alla fine della storia nessuno ha bruciato i vitigni del Tocai e nessuno vieta di berlo, ma sul nome della bevanda s’è rischiata una crisi internazionale.

Come vedete, il problema del Made in Italy è prima di tutto ontologico.

Tanto premesso, io ritengo che il Made in Italy sia un’immagine e non una realtà, e come tale viene difesa e propagandata.
Il perché lo ritengo ce l’abbiamo scritto nel DNA, noi italiani: siamo dei bastardi.

In Sicilia dolci e cotture delle carni sono tutti derivati da ricette arabe (“saracene”, dicono loro) e a ferragosto a Messina alla Processione della Vara, vengono affiancati con buona pace dei padani, ‘u gilanti e ‘a gilantissa, Mata e Grifone. E lui è negro, ragazzi, è nìvuro, e viene tirato a braccia da centinaia e centinaia di messinesi ogni anno nei giorni più caldi dell’anno. Ci vengono da tutto il mondo a vedere quel pezzo di meticciato Made in Italy.

Pretendere il Made in Italy è sbagliato?
Dipende.
Pretendere di vivere senza contaminazioni, sì è sbagliato perché non permette di crescere come persone, come cultura. Pretendere di sapere cosa mangiamo non è sbagliato ma non c’entra nulla col Made in Italy.
Pensare che tutto l’olio Sabina DOP sia sabino, pretendere che sia un business in crescita, la produzione aumenti, e con essa la qualità e constatare che la superficie coltivata stia diminuendo a colpi di residence mi crea almeno un problema di logica prima che logistico. C’è qualcosa che non torna.

Ho mangiato pizza surgelata (fatta in Francia) cotta al microonde non so quante volte nelle pizzerie di tutta Italia e devo dire che faceva davvero schifo.

E ovviamente mi sono incazzato, ma non perché non fosse autarchica e italica, fosse surgelata e cotta al microonde e facesse schifo (che è ovvio), ma più semplicemente perché veniva meno l’unico motivo per cui ero uscito di casa ed ero andato in pizzeria. Avevo speso più che prenderla al videonolo e ficcarla nel mio microonde per cosa?

Volevo una pizza fatta in quel momento e cotta a legna.
Io non la saprei fare (e quindi pago qualcuno per un qualcosa che non so fare) e non ho il forno a legna (risparmio sull’infrastruttura) ma mi piace in quel modo, quindi non mi resta che la pizzeria.

Dove vado di solito, i tre pizzettari sono marocchini DOP e la pizza è proprio buona. Dovrei dire malgrado tutto?
Essendo fatta sul suolo patrio dovrebbe essere Made in Italy, ma essendo fatta da marocchini è Made in Italy o no?
E se questi tre aprissero una pizzeria tra Gorizia (dove fanno la spesa) e Nova Gorica? Resterebbe la ricetta o quella sarebbe Pizzeka?

E se ci attacchiamo alle ricette, a voi non sa tanto di trisnipoti che ancora campano di rendita sul poemetto del lontano parente satiro?
Ovvero: non avete la sensazione che il Made in Italy avesse senso nell’Italia rurale in cui tutto quello che serviva era fatto non più lontano di quanto si potesse arrivare strillando e ne ha molto meno oggi che la Multipla la fanno in Iran e gli adesivi “Io compro italiano” che ci appiccicano li stampano in Vietnam?

Senza dimenticare che fino agli anni ’40 nella cucina friulana il pomodoro non c’era e si campava di polènte, frìc e radìc.
Cosa avranno dovuto patire quando le autostrade li hanno resi vulnerabili nel Made in Friül ed imbarbariti con gli spaghetti ar sugo?!

Aggiornamento
La questione del Made in Italy è talmente controversa, e quindi nient’affatto definitiva, che pare che l’industria italiana, mica quella cinese, chieda a gran voce di modificare la L.99/2009 in maniera meno restrittiva, ovvero consentendo di apporre il marchio Made in Italy come un logo e non come un’attestazione di qualcosa. Tu pensa.
A questa interpretazione si oppone, ovviamente, l’artigianato che deve necessariamente (ed in alcuni casi vuole fermamente) fare sul serio Made in Italy, a meno di non doversi delocalizzare per principio ogni mattina.

Autore: eDue

Bieco illuminista

Un commento su “Made in Ita Lì”

  1. Che scrivere, caro Roam?

    Piacevolmente ironico – laddove il fine umorismo stempera l’amaro gusto della consapevolezza, sopra spruzzandovi un delicato velo di zucchero – e condivisibile, il tuo “Made in Ita Lì”.

    Sul quale posso, se mi concedi, muovere un solo appunto, per pura pignoleria.
    Pignoleria eno-gastronomica: perdonabile – senza voler minimamente esercitar presunzione di giudizio: non mi permetterei – allorché tu stesso scrivi «Io sono astemio».

    Nel caso del Tocai versus Tokaj: scriverei di puro e semplice problema linguistico anziché ontologico.
    Insomma: semplice comunicazione. Verbale e scritta: informazione mancante.
    Da cui: confusione che ha portato una delle due parti, tramite accordi bilaterali unilateralmente recanti resa, a cambiar nome.
    Cambiar nome: in realtà in Friulano, se consideriamo quel che è stata, davvero, la terra madre e giusta patria del Tocai.
    Dunque, ancora problemi di comunicazione e di linguistica? Friulano e non il veneto Tai.

    Perché comunicazione e non ontologia?
    Perché Tocai e Tokaj son sempre esistiti, han sempre coabitato in tutti gli scaffali delle enoteche del mondo e in tutti gli almanacchi vitivinicoli ed enologici della Terra.
    Da sempre la terra e il sole han visto crescere questi due vitigni.

    Semplicemente: perché son due vitigni diversi che danno vino differente.
    Da una parte una Miura, dall’altra una Phantom.
    Eccellenze di diverso carattere, destinate a differente uso.

    Non è neppur stabilito con certezza qual sia più antico, come avviene nel caso del Primitivo pugliese e dello Zinfandel californiano aventi medesimo identico DNA scientificamente sovrapponibile eppur essendo due ceppi differenti, il primo per altro originariamente a piede franco.
    Non è dato sapere chi dei due ha varcato l’Oceano per metter radici nell’altro continente: forse è solo uno “scherzo” della natura.

    Nel caso di Tocai e Tokaj, invece, la questione è ancor meno arzigogolata. O, forse: lo è di più.
    Perché lo scherzo ci viene in dono, unicamente, dalla fonetica.

    Se tutti ci intendessimo di vino, non vi sarebbe stata questione alcuna: sapremmo, tutti, distinguer perfettamente un vino – il friulano, qui in minuscolo: secco, giustamente acido, sapido e strutturato – dall’altro – lo slovacco-ungherese: dolce, equilibratamente zuccherino, alcolico, liquoroso oppure, se secco e meno conosciuto, assai aromatico, molto ma armoniosamente acido, solitamente vendemmiato tardivamente con conseguente caratterizzante vinificazione.
    Non ci sarebbe stata confusione, né motivo perché qualcuno spingesse l’altro a cambiar nome.

    Cambiar nome: non in nome – mi sia concessa la cacofonia – della tipicità o della primogenitura.
    Semplici ragioni commerciali.
    Cui l’Italia ha abdicato per quieto vivere o, forse, ancor più per politico-economiche questioni.
    Cedo su questo, ma sulle quote latte e gli splafonatori del caso mi dai ancor tempo per (non) mettermi in linea con le direttive europee… Per esempio.

    Infine: sul “vero” Made in Italy eno-gastronomico… Un pizzico di fiducia in più, forse, ci sta bene.
    È difficile: ma si trova.
    Anche la pizza con tutte le carte in regola, a cominciare dagli ingredienti veramente tipici della nostra agricoltura.
    Ovviamente: sapientemente realizzata da mani egiziane o magrebine. In onore al miglior scambio socio-culturale. Che, sempre, ci sta bene.

    Calorosi e affettuosi saluti,

    Francesco

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