Idiozia selettiva

Da un po’, ed ancora per un po’, si parlerà di “intelligenza artificiale”, che non esiste.

Quello che viene venduto come tale, anche da chi non ce l’ha come Apple, è un motore che genera qualcosa (testo, immagini, suoni, ecc.) in base alla probabilità che quello che precede sia seguito da qualcosa sul materiale che è stato utilizzato (spesso rubandolo) per creare il modello.

Tutto quanto precede non è magia e non è innovativo in senso stretto, ma deriva dagli studi sul Data Warehousing con la condizione di non essere limitati ai dati in possesso ma poterne rubare a piacimento.

Siccome non c’è davvero nulla di particolare se non la potenza di calcolo richiesta in tutto quanto precede, aspettando che questo tipo di approccio ai dati divenga invisibile (e quindi utile), come è sempre accaduto in passato (ad esempio con gli algoritmi di ordinamento, che sono tanti e vengono scelti dinamicamente in base ai dati su cui chiediamo di applicarli, senza chiedere), si potrebbe almeno esplicitarne l’uso in contesti quotidiani. Rendendolo utile e simpatico.

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I cognitivisti mi perdoneranno la semplificazione, ma una delle capacità del nostro cervello è quella di limitare la quantità di segnali in ingresso che vengono degnati di attenzione; non tutti gli stimoli vengono elaborati, molti nemmeno notati. Quasi tutti vengono semplicemente ignorati.

Uno dei casi più frequenti nell’uso delle interfacce (fisiche o immateriali che siano) è quello delle cecità selettiva, quella per cui il navigatore della nostra vettura, quel bancomat a centro plancia che abbiamo pagato migliaia di euro, ci parla.

Ci parla, perché chi lo ha progettato sa che alla guida dovremmo guidare, il che implica il guardare la strada davanti a sé e non il cruscotto. Nei confronti di quell’oggetto stiamo applicando un filtro, per cui non lo guardiamo ma lo sentiamo solamente indicarci le prossime cose da fare per arrivare dove abbiamo chiesto di essere guidati. Anche se per poter avere la patente è necessario essere vedenti con un buon grado funzionale, quell’ausilio alla guida è costruito e funziona presupponendo che siamo ciechi, almeno nei suoi confronti.

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Tu mi profili, mi metti i cookie, mi fai domande indiscrete al limite del penale, mi mostri la mia cronologia recente, e per recente intendi dall’età della lallazione ad oggi. Vuoi che mi logghi per potermi profilare mentre mi muovo, incrociando tutti i dati che hai di me attraverso i numerosi servizi gratuiti che mi offri, e per potermi dire che a due isolati c’è un negozio di “Adventure. Astrology. And more.”.

Posto che di “Adventure. Astrology. And more.” non me ne frega un cazzo ma, chiedo, se invece di buttare i soldi al cesso, inquinare coi datacenter per elaborare e mandare messaggi a schermo con proposte come questa, cercassi di fare qualcosa di utile per il pianeta?

Tipo?!

Tra le cose che vuoi sapere è dove abito e dove lavoro. Capisci che abito lì e lavoro là perché gli attribuisci correttamente anche un’iconcina, una casetta nel primo caso e una valigetta ventiquattr’ore nel secondo. Certo, in questo modo mostri che chi ha progettato l’interfaccia ha sessant’anni, tanto anagrafici che come target primario, ma OK, è chiaro che hai compreso la semantica del dato.

È tanto vero che hai capito che quando sono a casa e metto in moto, tu mi chiedi subito se sto andando in ufficio; parimenti se sono a lavoro e metto in moto tu mi proponi di guidare verso casa. Con questo sai anche dove sono. Non ti ho detto che ho le emorroidi da qualche giorno, strano che tu non me l’abbia chiesto; mi pare strano ogni volta che passo davanti ad una farmacia e tu mi dici che a due isolati c’è un negozio di “Adventure. Astrology. And more.”. A te pare incredibile, ma io per non avere consigli così idioti preferirei dirti di più; probabilmente tu saresti perfino felice di sapere delle mie emorroidi, però probabilmente le normative europee ti limitano al punto che per te è meglio tenermi i coglioni sull’incudine e scolpirli a forgiare un pop-up ogni tanto per ricordarmi che a due isolati c’è un negozio di “Adventure. Astrology. And more.”.

Però alcune cose le sai. Usale.

Sai dove abito e dove lavoro. Lasciamo stare il sabato mattina che vado a fare spesa; ma cazzo la domenica mattina, perché mi chiedi se sto andando a lavoro? OK, potrei fare i turni al Pronto Soccorso, va bene, ma chiedimelo la prima domenica dopo che ti ho installato, chiedimelo la seconda che magari quella precedente potrei essere stato in ferie. Ma tutte le sante domeniche? E ancora non hai capito che il sabato vado sempre a fare spesa allo stesso supermercato? E che dopo aver fatto spesa non vado a lavoro, l’hai capito dopo cinque anni?

Che cinque giorni a settimana vado a lavoro, che lavoro sempre nello stesso posto e non ho un furgone con cui faccio i mercati rionali, e che non lavoro al Pronto Soccorso l’hai capito? Che mi fai fare sempre due strade, tu, mai una terza diversa anche se c’è un traffico anomalo, tanto anomalo che mi consigli di non uscire adesso perché sulla solita strada c’è del traffico anomalo, lo sai? E tanto solita dev’essere per te la strada, che sai quanto traffico c’è in media e quando è anomalo.

Sono un criceto, faccio sempre gli stessi orari e faccio sempre le stesse cose in quegli orari, e tu lo sai.

Possibile che tutti i giorni tu mi dica di prendere la seconda uscita alla stessa rotonda, che sta sulla stessa strada, del mio cazzo di itinerario quotidiano, che faccio due volte al giorno, perché tu mi fai fare sempre quello? E possibile che dopo cento metri abbiano fatto una nuova rotonda tre anni fa e che tu mi dica di prendere anche lì la prima uscita ogni volta che ci passo?

Ma lo so pure io, che sto andando a lavoro, cazzo. Lo so che a quella rotonda e quella cento metri dopo devo prendere rispettivamente la seconda e la prima uscita, se voglio andare verso il lavoro. E lo so senza bisogno di elaborarlo ogni volta, perché quel tragitto è quasi tutta memoria muscolare ed elaborazione inconscia, come la ventilazione e il battito cardiaco.

E possibile che tutti i giorni, due volte al giorno, tu mi dica che quello a seicentosettantacinque metri da casa mia è un incrocio pericoloso? Possibile che all’incrocio della strada sulla quale lavoro, che è senso unico, tu mi dica tutti i giorni di girare destra, implicitamente sconsigliandomi di girare dalla parte opposta e prendere un muro andando inoltre contro mano?

Ora, non c’è solo il problema che tu usi quello che sai di me solo per profilarmi e non mi dai nulla in cambio, c’è il problema che tu mi rompi i coglioni.

Si dia il caso, infatti, che io usi il tragitto casa – ufficio e viceversa per ascoltare di contenuti che altrimenti non avrei tempo di ascoltare; si dia quindi il caso che la tua applicazione e le altre competano per la mia attenzione che, lo ricordo, dovrebbe principalmente essere rivolta alla guida. E tu interrompi di continuo la riproduzione delle altre app (anzi, magari, tu non interrompi ma ti sovrapponi) per dirmi cazzate che so, che sappiamo tutti e due perché sono le stesse che mi ripeti tutti i giorni due volte al giorno da anni. Ne segue che mi costringi a prestare attenzione alle tue cazzate per il semplice fatto che interrompi qualcos’altro che ne ha già poca, per dirmi cose che non mi sono utili.

Ora, se tu che dici di usare l’intelligenza artificiale la usassi davvero e per quello per cui è nata, la mattina, quando metto in moto la macchina, dovresti dirmi «andiamo verso il lavoro, facciamo il solito itinerario, ti avverto solo se è meglio cambiarlo o se ci sono emergenze, dovremmo arrivare alle 11». E poi tacere.

Perché la verità è che tu mi rompi il cazzo e basta; con gli annunci di cose che non esistono (come l’AI stessa, d’altronde), col pensiero magico, con gli avvisi inutili, reclamando la mia attenzione per cose che già so, facendomi incazzare perché interrompi altre cose, facendomi guidare male perché sono incazzato con te e con l’intiero team di ingegneri.

Che hanno accettato il lavoro di merda che gli hai offerto perché possono lavorare da casa, risparmiandosi almeno di utilizzare i prodotti malfatti che proponi.

E si vede.

Costi e incentivi

Quasi tutte le piattaforme nate gratuite, social network inclusi, stanno iniziando a far pagare tutti o parte dei loro servizi.
Sono fioriti articoli e post in cui la frase cardine è sempre la stessa ovvero “130 € l’anno, ecco quanto rende un utente a {pap – piattaforma a piacere}”.
Il vizio di base di questi articoli, è che le piattaforme facciano pagare quello che un utente rendeva loro prima (ad esempio regalando loro i propri dati) quando il tutto non era tariffato.
Quindi, si legge spesso, se adesso {pap} fa pagare 10 € al mese significa che un utente prima le fruttava 120 € all’anno!
No.
Anche perché, se la tariffa dovesse aumentare (+++ SPOILER ALERT +++, aumenterà), questo cosa significherebbe? Che hanno sbagliato i conti prima o che nel frattempo l’utente ha aumentato il suo valore? O nessuno dei due?
Ecco, nessuno dei due.
Intanto, se prima era gratis (si fa per dire) e adesso si paga, è perché in generale gli utenti, dopo essersi abituati ad una cosa, se li metti di fronte a “paga o vattene”, generalmente scelgono di pagare; quindi, intanto l’idea di farli pagare E continuare a farsi i cazzi loro ricavandone valore significa semplicemente aumentare il profitto.
Quindi, come dire, perché no?!
Poi, se l’alternativa è gratis con la pubblicità o pagare senza pubblicità, bisogna vedere pagare quanto.
Perché se pagare è molto, non è che l’utente vale molto, è che quello che si sta proponendo non è un costo, ma un incentivo.
Se, mettiamo, un social proponesse un costo di 19,99 €/mese, cioè 240 €/anno, che è molto, lo farebbe non per i soldi, ma per evitare che gli utenti scelgano la versione a pagamento, lasciando tutto com’è.
E non perché gli utenti valgono di più se si fanno profilare, ma perché se il modello di business dei social è profilare e vendere pubblicità, cambiare quel modello di business è troppo costoso. Il costo proposto agli utenti serve a indirizzarli verso una scelta, non pagare, che lasci tutto com’è.
Google, Meta ed altri, sono agenzie pubblicitarie.
Fanno quello, vendono pubblicità.
Il loro modello di business e il relativo modello aziendale sono costruiti sul fatto che vendono pubblicità; se dovessero mettersi a vendere bulloncini e dadarelli dovrebbero cambiare tutto.
Fosse possibile, sarebbe enormemente costoso e, soprattutto, sarebbe un salto nel buio.
Quindi, spiace, non valete centoventi, duecento, duecentoquaranta, diciannove e novantanove, uno, cinquanta centesimi, mille™ euro al mese, al minuto come la tariffa Arancione di TIM, all’anno, al chilo, al metro.
Non valete nulla, se diventate un costo.
Non vi stanno proponendo di pagare quello che varreste se decideste di non pagare, ma vi propongono un incentivo.
Se è poco, aumenterà e ci faranno altri soldi; se è molto è perché non vogliono che paghiate, perché preferiscono che tutto resti com’è.
Non è una questione di valore, ma di costo contro incentivi.

Elaborazione del linguaggio naturale

Non sono intelligenze, sono generatori di sequenze di parole, basati sulla probabilità che quello che segue sia comparso nel materiale che hanno usato per creare la statistica.

Ripetono il materiale che hanno ricevuto in input, senza verificare fonte, attendibilità, veridicità, ragionevolezza, coerenza, verosimiglianza, con una minima rielaborazione formale.

Gli utenti andrebbero avvertiti con messaggi espliciti tipo “il citofono funziona solo negli orari di chiusura della portineria”.

Vai in edicola? Ricordati la mortadella.

Forse ricorderete delle questioni attorno al Sole, finite in tribunale, e comunque del fatto che il giornale di Confindustria non fa utili, cosa di peso ancor maggiore; bene,

L’azienda del Sole 24 Ore ha comunicato di avere chiuso il 2022 in utile, per la prima volta dopo quattoridici anni. Il “risultato netto è positivo per 0,5 milioni”1

E, ribadisco, si parla di un giornale:

“In particolare, nel 2022 i ricavi pubblicitari sono in crescita di 2,6 milioni di euro (+2,9% rispetto al precedente esercizio) e sono pari a 90,8 milioni di euro; i ricavi editoriali diminuiscono di 2,3 milioni di euro1

Quello che precede riguarda il concetto di azienda sana più di qualunque chiacchiera: è sana un’azienda che genera utile o è sana un’azienda che lo genera sul suo nocciolo commerciale?
E qui non so se si parla ancora di giornalismo ed editoria.

  1. Citazione da Charlie de ilPost del 26.03.2023

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Aggiornamento: anche se il business si sta spostando verso straccetti panna e rughetta™, gli straccetti volano: In altre parole, Il Sole 24 Ore si è prestato a battere la grancassa per una dittatura, che alla tradizionale assenza di pluralismo politico, di libertà di opinione e di espressione, di rispetto per le minoranze, è oltretutto oggi sempre più arroccata in politica estera su un sostegno filoputiniano.

Ho scritto dato sulla sabbia

Volendo trasmettere conoscenza alle generazioni future, le tecnologie moderne sono troppo evanescenti.
Un floppy da 3,5″, uno da 8″ poi, oggi è praticamente illeggibile, vuoi per mancanza di lettori, vuoi per l’emulsione magnetica sul piatto.

Volendo trasmettere conoscenza per millenni il papiro si è dimostrato migliore, così come altri supporti tanto primitivi quanto longevi.

Vorrei pertanto scrivere sulla pietra, per i posteri

«Abbiamo impostato le date dei record che non scadevano al 31.12.9999».

Non ci siamo già visti da qualche parte?

Non vorrei dire, ma l’analisi della sconfitta mi sembra un déjà vu. Ora il problema non è che non sia possibile perdere in una qualunque competizione, è che se continui a perdere ad ogni competizione, e ad ogni sconfitta fai seguire un’analisi della sconfitta come unica attività, il senso della tua esistenza comincia a sfuggire ai più.

Da elettore posso dire due cose:

  1. il brand “sinistra” ormai è lebbra, un orbitale di partitini sub-atomici pronti a collidere e scindersi (senza produrre energia, anzi) in virtù di una presunta purezza ideologica, tradita da tutti gli altri. Ormai è percepito come “voto inutile”, salvo l’1% di residuo fisso
  2. nessuno, ripeto nessuno, può elencare DUE cose caratteristiche o distintive del PD rispetto alla radiazione cosmica di fondo. Mai una posizione su nulla che non sia invalidata dalla sua opposta o reciproca.

Tanto per chiarire:

  • opposta: se qualcuno nel PD, meglio se il segretario, dice che A sarebbe bene, ci sarà inevitabilmente qualcun altro che va in TV a dire che è preferibile –A, e che volendo insistere su A si rischia una scissione
  • reciproca: se qualcuno nel PD dice che A è bene, meglio se il segretario, ci sarà inevitabilmente qualcuno che va in TV a dire che è escluso che il PD annacqui la sua posizione su A, che è quella e quella resta, salvo poi rassegnarsi all’irrilevanza sostenendo 1/A, che scontenta tutti, meglio accantonarla.

Poi c’è la questione alleanze; c’è sempre la questione alleanze. Il fatto che prendi le stesse percentuali sia in coalizione che fuori da ogni coalizione, non deve mai farti fermare un momento a riflettere sul dato che il problema potresti essere tu.

Infine, ovviamente, c’è la questione astensionismo, sulla quale curiosamente hai un’idea forte e chiara: quelli che si sono astenuti, tutti, erano voti tuoi.

Parafrasando Murphy, se una cosa non può che andar male lo farà.

Righe di quinta

Cosa triste, che uno che viene da fuori (così come un genitore adottivo, per dire) debba essere migliore di quelli che stanno lì a fare la muffa da una vita, solo perché sono nati al di qua di una riga a terra.
I confini sono una cosa del millennio scorso, ma per la maggioranza degli umani è ancora l’unico modo di darsi un’identità.

È un po’ pochino.

La globalizzazione (che è un fenomeno che va un po’ oltre la cancellazione dei confini che anzi tende a mantenere per questioni di vantaggio competitivo, almeno nei suoi aspetti commerciali) mica diluisce le identità, cancella solo quella parte di identità che sono le consuetudini, la parte in cui tu come individuo non conti nulla.
L’identità nazionale è solo comoda se sei poco concentrato e sei molto solubile; se aumenta il solvente la tua esistenza finisce a dosi omeopatiche.

Nella vita so fare due, tre cose bene; e le so fare ovunque. Non è che quando passo il Brennero per andare trovare la parte pallida della famiglia divento inetto; le so e le so fare bene anche lì.

Quanto all’identità linguistica, quella non esiste nemmeno in Italia a pochi chilometri di distanza.
Poco male, basta poterla ripristinare (come sto facendo ora qui, per esempio) quando serve.
Nel quotidiano, parlando, uso pochissimi punto e virgola, per dire.

Sono gli strumenti che hai per capire e cambiare il mondo che fanno la tua identità, non quella che ti hanno stampato addosso quelli che non ce l’avevano a loro volta.

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Un commento a Vita da Museo – La vita in Gran Bretagna? E’ un test: specie se volete la cittadinanza.

Difendere le tradizioni millenarie

Vi sarà capitato di stare in coda alla cassa al supermercato e afferrare un Kit Kat all’ultimo momento prima di pagare. Se vi trovaste in Giappone questo gesto vi richiederebbe forse lo stesso impegno che mettete per decidere cosa vedere su Netflix: in un negozio qualunque vi trovereste davanti a decine e decine di gusti, dimensioni e colori disparati; ma potreste pure finire in un Chocolatory Kit Kat, una boutique che vende le versioni più raffinate e costose dello snack, spesso ridotto a un unico lingottino confezionato in carta preziosa. In Giappone il Kit Kat non è un semplice dolcetto ma, grazie a un’intelligente campagna di marketing, ha avuto un successo commerciale enorme ed è diventato uno dei dolci più popolari, spesso scambiato per prodotto tipico del paese.

Da In Giappone vanno matti per i Kit Kat – Il Post.